All the roads lead to Ubud

Quando organizzi un’uscita con un driver e gli chiedi a che ora suggerisce di partire, la risposta è sempre la stessa “After breakfast”, alle 9, quindi.

Non importa dove devi andare, evidentemente quello delle 9 è l’orario perfetto.

Il mio viaggio verso Ubud inizia alle 9, giusto per essere precisi, ed è un susseguirsi di tappe per gli acquisti: avevo anticipato ad Hanom della mia mezza idea di approfittare dell’itinerario per prendere qualcosa da portare a casa. Non l’avessi mai fatto!

Mani ben salde sul volante, Hanom mi spiega come ogni villaggio sia specializzato nella produzione di un prodotto ben preciso, è così che funziona l’artigianato da queste parti, ed inizia a snocciolarmi un lungo elenco per cercare di capire cosa mi interessa, in modo da organizzare il percorso.

Curiosa questa cosa del villaggio specializzato; e Candidasa? Chiedo lumi.
“A Candidasa? Beh, niente, noi siamo pigri: è solo un villaggio di pescatori. Finito.”
E dici niente? Non mi pare che il pescatore sia proprio lo stereotipo del lassismo, ma va bene.

Torniamo ai nostri chilometri verso il centro, con la costa alle spalle.

La strada verso Ubud è stato per me il tipico esempio di come tante volte quello che conta non è la destinazione finale, ma tutto ciò che sta nel mezzo, in una giornata intensa quanto una settimana intera.

Non mi si fraintenda: Ubud rimane un must per chi visita Bali, impossibile perdersi il cuore spirituale dell’isola con la Sacred Monkey Forest, l’Ubud Palace e le infinite possibilità che ci si ritrova sotto il naso ad ogni passo.
Sto solo dicendo che alla fine, per come l’ho vissuta io, a colpirmi davvero è stato in realtà tutto quello che è venuto prima, forse perché non me lo aspettavo, o almeno non così.

Le tappe, dicevo.

Prima fermata Celuk, il villaggio dell’argento: una serie di botteghe più o meno grandi, gonfie di artigiani chini sui loro banchetti da lavoro.
Lungo le vie, dei veri e propri buttadentro, che, offrendosi di fare da guida attraverso le diverse fasi della produzione dei gioielli, prova ad piazzare il risultato finale di tanto trafficare.

Mi faccio buttare dentro in più di un pertugio, e rimango affascinata dall’abilità nel lavorare pezzi anche microscopici. Tutto viene fatto a mano, ogni pezzo è unico.

Anche il prezzo di tanta unicità è di quelli che lasciano senza fiato, quindi ogni volta ringrazio per la disponibilità davvero squisita, e me ne vado giusto con qualche foto rubata: ci saranno tempi migliori per fare acquisti!

E’ poi la volta di Batubulan, ovvero il Batik.

Mi fermo in un laboratorio, ed è interessantissimo vedere mani esperte che corrono lungo i telai guidate dalla memoria di anni, o che si destreggiano con la cera liquida, i cui fumi ammorbano l’atmosfera.

Sì, con la cera, perché è proprio con questo materiale che viene fatto il disegno del batik quando la stoffa è ancora bianca (rigorosamente a mano, come mi hanno gentilmente ricordato qualche decina di volte, “altrimenti non è vero batik!”: ricevuto, farò presente).

Il tessuto viene poi tinto, e una volta asciutto viene riscaldato, in modo che la cera, sciogliendosi, scopra la parte di tela rimasta del colore originario, rivelando così il disegno.

L’operazione viene ripetuta colore per colore: il risultato finale è il susseguirsi di una serie di passaggi ben calcolati, dove tinte e spazi da non trattare si sovrappongono.
E’ davvero impressionante, se si pensa come in realtà quella che può essere certamente considerata un’opera d’arte sia il risultato di un calcolo ben preciso, ingegneristico, e non della foga creativa di qualche alternativo.

Qui il regalo per la mia casetta ci scappa: vuoi andare a Bali e tornare senza batik? Suvvia, siamo seri.

A Batuan, invece, più a Nord, nascono tutti pittori, e le strade sono uno schiamazzo di tele di ogni genere e dimensione, che ammiccano al passante.

Io però mi fermo a Dalodtundua, con una missione che risponde ad un nome ben preciso: aquilone.

Avevo già accennato a come questo sia uno strumento per stabilire una sorta di ponte con le divinità: ecco perché la produzione è così sviluppata, e si possono trovare degli aquiloni meravigliosi.

Rimango affascinata da quello che è di fatto un garage, tra l’altro anche un po’ diroccato (sono sempre stata vittima della seduzione del decadente, non ci posso far nulla), che tre ragazzi hanno trasformato in un posto davvero unico: alle pareti macchie di colore che riscaldano l’atmosfera più della lamiera sopra le nostre teste, che per passare devono chiedere il permesso a draghi dallo sguardo minaccioso, farfalle con le ali spiegate, e velieri che navigano senza peso.

A terra cumuli di bastoncini di bambù, ritagli da reinventare, e barattoli colla: watch your step, non da finirci dentro.

I colori ormai familiari della natura possono solo alzare le mani, a questo punto, e rimanere fuori dalla cler, lasciando il posto ad una specie di sfacciataggine psichedelica, che proietta in un’altra dimensione.

Basta poco per ritrovarsi in luoghi lontani: dei materiali poveri e una fantasia impossibile da frenare.

Hanom ed io cadiamo vittime dell’incanto che ci avvolge, e ci lasciamo conquistare dai personaggi di questo mondo impertinente.

E’ così che torniamo verso la macchina in compagnia di una farfalla blu, che volerà con me in Italia, di un drago rosso, e di un veliero dalle tinte del giorno che si sta spegnendo, che attraverseranno questi cieli sotto l’equatore: Hanom non riusciva a decidersi, e li ha presi entrambi.

“E’ colpa tua, non compro mai niente quando sono con un cliente, non si fa!”
“Hanom, mi dici sempre che non sei una guida, quindi io non posso essere tua cliente, fidati.”

Mi guarda un po’ stranito, prima di arrendersi ad un sorriso “Allora è ok.”

Bene, è ok.
Ed è anche kite-addicted, ormai.

Partiamo per Mas, dove ci aspettano bellissime sculture di legno, e dove il babi guling (una specie di maialino arrosto, ma prometto che ne parlerò) sta ancora rosolando con la tipica lentezza, ormai rassegnato al suo triste destino.

Ubud può ancora attendere: impossibile avere fretta di arrivare a destinazione da queste parti.

5 pensieri riguardo “All the roads lead to Ubud”

  1. Bellissimo post, alcune tappe verso Ubud le ho fatte anche io quest’estate. Bali per me è stato un posto davvero magico, uno di quelli dove sicuramente cercherò di tornarci!

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