Avevamo lasciato in sospeso qualcosa di salato, e di molto speziato: vediamo di onorare la promessa!
Dico subito che non esiste un ricettario ufficiale che sia valido per tutta l’isola: ho avuto modo di rendermi conto in prima persona che, alla fine, ogni ristorante, warung, o famiglia hanno il proprio segreto, spesso custodito gelosamente.
Parlerò quindi di quello che ho visto fare, per come l’ho visto fare (e per come l’ho assaggiato!) , ben sapendo che in un qualsiasi altro posto, anche quello più vicino, lo stesso piatto può avere gusto e sembianze decisamente diversi!
I membri dell’ashram sono vegetariani, quindi…niente carne! Quella che ho assaggiato, l’ho assaggiata durante le mie sortite, ma in questo modo ho scoperto il tempe, del quale mi sono innamorata!
A differenza del tofu, che già conoscevo e che tuttora non mi entusiasma particolarmente, il tempe mi ha letteralmente conquistata (indovinate a chi proponevano il bis quando avanzava?), tant’è che me ne sono presa un po’ anche da portare a casa.
Per dovere di cronaca preciso che si tratta di una sorta di tortino di germogli di soia fermentati, composto in panetti che vengono venduti ancora tiepidi e avvolti in foglie di banano, come l’ho trovato al mercato, oppure confezionati sottovuoto nella loro versione da supermercato, ovvero: l’altra faccia del progresso.
Il tempe viene tagliato a fette, lasciato marinare in acqua tiepida e poi fatto saltare in padella in diversi modi: semplicemente con olio, o con l’aggiunta di cipolla, pomodoro e zucchero di canna, per esempio: accostamento all’apparenza estremo, ma assolutamente squisito!
Generalmente utilizzavo il tempe come “forchetta” per raccogliere il riso, che annegavo nel sambal.
Eh, il sambal … è una salsa, più o meno piccante, che ho imparato a mettere ovunque: le nostre cuoche cercavano di trattenersi, ma quando chiedevamo “more chili” le loro espressioni si allargavano in sorrisi da ricordare, e allora sì che ci andavano pesante.
Eccezionale!
Preparata con pomodori, aglio (chi non lo ama si rassegni: è ovunque), cipolla, peperoncino e zenzero, ho già detto che è eccezionale? Anche sulle uova sode!
Una cucina che si accomoda nel solco della tradizione sfrutta i prodotti che offre la terra, e a Bali, la terra è generosa di arachidi, oltre che di riso: le noccioline entrano di prepotenza in tantissime preparazioni.
Cito di rappresentanza il famosissimo gado gado, mix di verdure, generalmente fagiolini e germogli di soia, condite con la famigerata peanut sauce: una sorta di “pesto” di arachidi, fatto con aglio (ve l’avevo detto), zenzero e latte di cocco.
Le verdure vengono cotte a parte, e la salsa aggiunta alla fine.
Il gado gado si mangia coi krupuk, che i balinesi chiamano anche crackers, senza stare a fare troppe distinzioni, e che sono molto simili a quelle che noi conosciamo come nuvole di drago; a base di farina di riso, ce ne sono di gusti diversi, dai gamberi, al maiale: non proprio leggerissimi, ma difficili da abbandonare, una volta che se ne fa la conoscenza.
Comunque scrivere certi post è pericolosissimo: mi è venuta una fame pazzesca! E mi è tornata in mente una delle cose più buone che ho assaggiato durante il mio mese sotto l’equatore: la frittata di papaya.
Come dice Wenten, “simple, simple, only mix young papaya and egg: simple!”
Il problema da noi è trovare la young papaya, ma ci si può provare, perché poi grattuggiata e mischiata all’uovo sbattuto è pura poesia, davvero.
A Bali l’impasto veniva racchiuso in foglie di banano e cucinato al forno, che ovviamente non era un forno elettrico, ma alimentato con la brace, e indovinate brace di che?
Di gusci di noci di cocco: tutto un altro aroma per il cibo!
Con questo metodo venivano cotti anche il pesce, per esempio, e il tofu: ci si ritrovava così con misteriosi pacchettini nei piatti, e la curiosità di scoprirne il contenuto faceva solo aumentare l’acquolina in bocca!
Chiudo la rapida carrellata di meraviglie con un piccolo mattoncino che però va assaggiato: il babi guling, balzato agli onori delle cronache internazionali come suckling pig.
Come suggerisce il nome, si tratta di maiale arrosto, cotto per diverse ore (per certi versi può ricordare il porceddu della nostra Sardegna!) e molto speziato, ma questo che lo dico a fare!
E’ possibile scegliere tra diversi tagli, il più gettonato è lo spesial, e viene servito con riso, verdure, cotenne, salsiccia piccante, e carne fritta.
Dico solo che quando ho pranzato col babi guling, ho cenato con una lattina di coca cola.

Dove trovarlo? Praticamente ovunque sull’isola, ma se devo fare un nome, che sia il top, quindi “Ibu Oka”: a Ubud il locale storico, sempre affollatissimo, e qualche chilometro più in là, a Peliatan, il locale nuovo, decisamente più grande (e più vivibile, aggiungerei).
Piccoli warung crescono, insomma: neanche il maiale sfugge al potere del marketing.
Concluderò la trilogia culinaria col prossimo post, dedicato alla “Bali da bere”: ammetto che inizialmente non avevo previsto l’argomento, ma… potevo tralasciarlo?
Che domande!
Come dicevi scrivere questi post e’ pericoloso, ma non solo per te, ma anche per chi li legge perche’ mi hanno messo una fame pazzesca! Scherzi a parte per me un viaggio non puo’ definirsi tale senza provare i profumi e sapori dei prodotti tipici locali; sei una viaggiatrice a 360 🙂
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A quest’ora poi!!! Sono d’accordo con te, la cucina è un elemento fondamentale della cultura di un popolo. Tra i momenti più belli del mio viaggio a Bali ci sono le ore nella cucina dell’ashram e la visita al mercato con la cuoca: credo che certe esperienze siano senza prezzo, e fanno davvero la differenza 🙂
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Qualora ci fosse bisogno di una conferma: sì, parlare di cibo è deleterio.
Parlare di cibo squisito -quando non se ne ha a tiro- è perseguibile dalla legge.
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Pienamente d’accordo: confesso le mie colpe, e ammetto il masochismo, data la stessa condizione di penuria di squisitezze! 🙂
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