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Parigi in un giorno: c’est faisable!

Diciamolo subito: per vedere una città come Parigi non basterebbe una vita, ma noi ci si accontenta.

Ogni tanto mi prende quella voglia di gita fuori porta; ultimamente, quando mi capita, butto l’occhio su Skyscanner perchè c’è una cosa che mi piace tantissimo: si possono fare ricerche dal proprio aeroporto a “qualsiasi destinazione”. Fantastico, bisogna solo mettere una data e stare a vedere cosa ne esce.

Devo dire che sto giro mi è andata piuttosto bene, così ho prenotato i miei voli per Parigi e sono partita.

Sono atterrata verso le 8 del mattino a Beauvais, che non è l’aeroporto più comodo del mondo, si sa, ma i biglietti del transfer per il centro me li sono presi online da casa (qui il link), così ho evitato una coda, ed eccomi in Porte Maillot attorno alle 10.

La prima tappa è stata per quella parte di città che davvero adoro e chi non mi capisce: Montmartre; ho preso la metropolitana e mi sono presentata al mio appuntamento con la Butte con in tasca quell’emozione che ti porti appresso quando non vedi qualcuno da un po’ di tempo.

Parigi dalla Butte

Questa collina mi piace per la sua maniera irriverente di stare in città: le lancia uno sguardo dall’alto del suo snobismo tipico dell’artista alternativo, che pare quasi chiedersi che ci perde a fare del tempo in mezzo ai comuni mortali.

Sarà che per queste vie nell’Ottocento ci è passata la storia dell’arte e della letteratura.

Sarà che a concentrarsi pare di vedere Hemingway abbracciato alla sua Fée Verte sopra uno sgabello scalcinato, avvolto dal profumo della muffa.

Sarà che quando sei sotto al Sacre Coeur e guardi giù ti pare che tutta la città possa stare in un fazzoletto che ti metti in tasca così ti segue fino a casa.

Sarà la Place du Tertre gonfia di crayon che corrono sulla tela ruvida circondati da scorci da cartolina, sarà il profumo degli éclair che sfugge alla panetteria.

Artist @ work

Sarà tutto questo, come resisterle.

Salutato con una certa difficoltà quel piccolo angolo di un mondo che è sferico, sono tornata tra le vie che dall’alto parevano quasi disegnate, e dall’Arco di Trionfo ho camminato lungo gli Champs-Élysées mandando un saluto a l’Hôtel des Invalides sulla strada per Place de la Concorde, e dopo un giro attorno all’obelisco arrivato da Luxor (non per me, intendiamoci, già passava da ste parti) ho attraversato i cancelli dei Giardini delle Tuileries.

Tuileries

A questo punto saranno state all’incirca le due, e in effetti in momenti come questi, uno la fame inizia anche a sentirla, anche se a Montmartre non è riuscito a dire di no a qualche madeleine.

Ma il fatto è che quando mi prende il raptus fotografico riesco perfino a dimenticare la fame e garantisco che per come sono io l’impresa è ardua; mettiamoci poi quella specie di fissa che ho per rami e lampioni che in un parco si trovano anche facile, ed eccomi rialzare gli occhi giusto davanti alla piramide del Louvre, senza rendermi neanche conto della strada fatta.

Dopo però me ne sono resa conto eccome.

Credo di aver percorso lo spazio che mi separava da Notre-Dame in tempo quasi da record, se di record si può parlare quando sei alle prese con scatto compulsivo e scolaresche di bambini in preda a delirio fluviale “La Seine, la Seine!!!
Che casino, hai voglia a guadarli, forse è più abbordabile il fiume.

Arrivata finalmente alla cattedrale ho fatto un armistizio con lo stomaco offrendogli una crêpe salata in segno di pace: sono compromessi cui non si vorrebbe mai scendere, lo so, ma bisogna.

Mi sono quindi seduta sulla tribuna allestita per gli 850 anni della chiesa più famosa di Francia, proprio lì davanti alla facciata, che pareva di stare al Saint-Denis, e mi sono data per venti minuti buoni all’irrinunciabile human watching.

Ho preso quindi di mira con le mie foto l’alter ego femminile di Karl Lagerfeld che era-uguale-sembrava-proprio-lui-ma-donna, la guida turistica di uno sciame di pensionati preoccupati più che altro di non perdersi tra di loro, e una famiglia di asiatici, che si sa che io ci casco sempre.

Karl!!!

E poi mi sono infilata in metropolitana, perché se vai a Parigi uno sguardo alla torre si deve.

Le sono quindi passata accanto, l’ho guardata ancora una volta dal Trocadero e sono tornata a piedi verso l’Arco di Trionfo, che ormai era orario d’aperitivo e dopo tutto questo scarpinare un po’ d’ozio nella città del flâneur era anche giusto concederselo.

Eiffel Tower

Lo stesso vale per il mojito al mango scovato prima di ritornare in Porte Maillot, direzione Beauvais: il miglior arrivederci alla Ville Lumière che si apprestava ad accendere le sue luci.

Mangue Mojito

Mi prendo qualche riga per un paio di ringraziamenti speciali:

alla buona stella che mi ha fatto trovare dei voli a prezzo zero in orari fantastici;
al cielo, che era prevista pioggia, ma ha fatto la gentilezza di trattenerla per tutta la giornata;
a Parigi, che se riesco ci ritorno prima dell’estate;
a Ska, che mi ha accompagnata e si è fatto una bella scarpinata pure lui (oltre che centinaia di foto)!

Un primo sguardo a Sydney: The Rocks, tra pirati e filibustieri.

Eravamo rimasti dietro la porta un po’ sbilenca del nostro caro O’ Malley’s, ora sarà il caso di mettere il naso fuori e se non vi spiace partirei dal quartiere della città che più mi ha intrigata.
Sì, direi che il termine giusto è proprio questo.

Partiamo dai Rocks, quindi.

The Rocks

Quella dei Rocks è la zona a ridosso del porto, nei pressi dell’Harbour Bridge, per intenderci; è una delle parti più antiche della città, dove sbarcavano i detenuti spediti all’altro mondo, che alla fine qui ci rimanevano per fare bisboccia; chissà cosa doveva essere questo posto i secoli scorsi: taverne fumose e voci rauche di fumo e alcool che tagliavano le notti di un emisfero lontano.

Harbour Bridge from The Rocks

Per non parlare dell’andirivieni di marinai e portuali: quando la città non è capace di stare troppo ferma.

I Rocks sono un intrico di viuzze strette e strade senza sbocco contornate da palazzi in pietra che hanno conservato il loro fascino originario; qui pare di respirare un po’ l’aria della vecchia Europa: contrasto col resto della città che è inutile negare un po’ disorienta.

Walking around The Rocks

E’ tra gli anfratti dei Rocks che si annidano i locali più vecchi di Sydney, con la loro buona dosa di polvere e di moquette calpestata, dove se ti concentri per un secondo mentre bevi la tua birra al bancone e chiudi gli occhi, pare quasi di sentire le imprecazioni di Capitan Uncino, che Peter Pan l’ha fregato anche stavolta.

Oldest pub in Sydney

Dove il sabato c’è il mercato, con oggetti che si prendono con la forza una buona dose di attenzione, dove ci sono botteghe di artigiani che incantano col loro lavoro e chi sa resistere, dove ci sono librerie coi titoli più strani e caffè con menù dalla spiccata fantasia.

Io qui un paio di sere ci ho cenato, una al “The Rocks Cafe”, e devo dire che anche se ero sul punto di scoppiare, un dolce alla fine c’è stato lo stesso, che proprio non si poteva dire di no, la gola.

Just a little piece of cake

I Rocks li puoi guardare dall’alto, se sali sull’Harbour Bridge (beh, a quel punto vale la pena buttare un occhio anche alla baia, che l’Opera House ha sempre il suo perché), o li puoi vedere di notte, magari facendo uno dei cosiddetti tour dei fantasmi, dove le storie di pirati, filibustieri e vecchi marinai vengono raccontate alla luce di una lanterna mentre ci si infila tra le vie silenziose.

Senza fare troppo rumore, eh, che altrimenti quelli sentono.

Up the bridge