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Sydney: sotto il segno di San Patrizio.

Landing in SydneyA Sydney ci sono arrivata con le scarpe rosse di polvere del deserto e con qualche buco rimediato durante la scarpinata al Kings Canyon, ma che ci vuoi fare.

+1,5 ore rispetto al Red Centre: bizzarri i fusi australiani, davvero da impazzirci.

Credo che ci vorrà più di un post per cercare di spiegare perché in questa città io ci vivrei (e ripeto che questa cosa l’ho detta solo qui e a San Francisco, ragazza difficile, lo so), ma vedremo che ne esce.

Da dove partiamo… partiamo da dove ho dormito, che ho la calamita per certi posti e tante volte son fortune.

Sydney City Map da www.makkamappa.com

La zona è quella di Kings Cross, quartiere che la Lonely Planet definisce “elegante e squallido, suggestivo e sordido […] mai noioso”, e l’albergo non è un albergo, ma un pub irlandese che di nome fa O’ Malley’s (http://www.omalleyshotel.com.au/ rel=”nofollow” ).

L’O’ Malley’s si trova proprio sotto il maxi cartellone della Coca Cola (mi sono accorta di non averlo fotografato da vicino, non me ne vogliate, sono errori di gioventù) che è diventato uno dei simboli della città senza nulla togliere all’Opera House, sia chiaro, è che qui parliamo di simboli più underground, meno istituzionali.

Quelli che ci piacciono insomma.

Kings Cross

Il primo incontro col nostro pub è di quelli all’insegna dello scetticismo, che va bene tutto, ma con l’atmosfera polverosa della remota Irlanda mi calca un po’ la mano, come pure con gli arredi vintage dal vago sentore di tarma, ma non badiamoci troppo, siamo a Sydney.

Con tutto quest’entusiasmo salgo le scale di legno che si lamentano sotto le mie suole malridotte per entrare in camera a liberarmi del bagaglio; apro la porta e noto che tutte le promesse fatte fin dal piano terra vengono mantenute, ma siamo sportivi.

E’ in questo momento di massima rassegnazione che finalmente a mani libere ruoto la bacchetta delle veneziane, almeno un po’ ci si vede che non è il caso di accendere la luce a quest’ora, e mi innamoro della cara vecchia terra di San Patrizio con tutto il suo pulviscolo a mezz’aria: una vista del genere non è il regalo di un dilettante.

This is the view!

Vedi tu cosa si nasconde nei posti più impensati.

Dell’O’ Malley’s ricordo con affetto anche quella che ho ribattezzato come la “cameriera rottweiler”, simpatica vietnamita che più che portare il caffè la mattina lo scaraventava direttamente sul tavolo con quello che sembrava quasi un grugnito, che probabilmente la tua presenza la irritava, ma tocca sopportare.

Ricordo anche la caciara alticcia fino a tarda ora, quando anche la musica dal vivo ormai taceva, che gli avventori, si sa, si attardano, e ricordo una specie di fagotto informe arrotolato sul marciapiede fuori dalla porta una mattina che si era attardato un po’ troppo evidentemente, ma con la Guinness si sa che non ci si discute poi molto quando è lei a  prendere in mano la situazione.

E tutto questo compreso nel prezzo della stanza, che non è da tutti.
Quando tornerò a Sydney dormirò ancora qui, garantito.

Vintage room with a girl

La prossima settimana inizio a raccontare anche quello che c’è oltre la porta che un po’ cigola, tra i quartieri della città.

East Coast quarta tappa – da Ballina a Byron Bay

Il tratto di strada che da Coffs Harbour porta a Ballina è da ricordare per un evento dalla portata storica: è stato qui che ho visto il mio primo canguro.
Vivo.

Sì, perché non si creda che in Australia i canguri sbuchino da ogni angolo, non è poi tanto facile ritrovarseli tra i piedi.

Ma continuiamo in direzione nord.

Lasciando perdere il Big Prawn (stavolta si tratta di una pescheria e non ci sono entrata, precisiamolo) che ammalia col suo occhio vitreo all’entrata del paese, Ballina avrebbe anche i numeri per ammiccare alle folle sfreccianti per la mitica N°1, uno su tutti le spiagge di sabbia bianchissima che tengono per mano questo pezzo di oceano.
Il fatto è che il destino l’ha piazzata a poco più di uno sgambetto da Byron Bay (saranno 30km all’incirca) e allora lì che ci vuoi fare, ti arrendi.

Di Ballina ricordo la giornata umidiccia, l’immancabile meat pie e la partita di rugby della Pacific League, faccenda dannatamente seria questa.
Se poi a giocare sono Australia e Fiji, uno si gode scene che neanche a Milano quando c’è il derby.

Ma concentriamoci su quella che secondo me è la Meta (qui la maiuscola ci vuole, vedere per credere) per eccellenza: Byron Bay.

In genere si dice “vedi Napoli e poi muori”, per Byron Bay è lo stesso.

Capitale New Age della East Coast, Byron Bay è da sempre ricettacolo di personaggi strani e di surfisti, che poi cosa cambia; questo è il punto in cui dovrei scrivere che la sua atmosfera incanta e proietta verso altri mondi, ma generalmente quando sono io a leggere cose del genere alzo un po’ il sopracciglio, quindi evito (e in ogni caso è vero).

Sei per strada e vedi gente camminare scalza sui marciapiedi fin dentro le vie; hippie nostalgici portano in giro cespi di capelli arruffati con i loro vestiti lavati nella sabbia, calcandosi sul naso occhialini come solo John Lennon potrebbe fare ancora senza sollevare una ragnatela di nostalgia.
Ma qui vale tutto.

A Byron Bay ogni cosa è organic, healthy, green, dal gelato dei bar sulla spiaggia alla sistemazione per la notte: io sono stata al Bamboo Cottage.
Che ci vuoi fare, finisco sempre in posti del genere e li adoro.

A Byron Bay fanno lezione di yoga sulla spiaggia presto la mattina: se sei per strada quando sta sorgendo il sole, vedi sciami di affezionati prendere la via del mare col loro tappetino sotto al braccio.

E’ proprio qui che si trova il faro cui sono a mio modo legata, sul promontorio di Cape Byron, il punto più a est del continente australiano sulla terraferma (curioso che qualche mese dopo sono stata a Cabo da Roca: il punto più a ovest del continente europeo sulla terraferma: altro estremo, altro faro); dalla cima c’è una vista meravigliosa e lo dice una che ha trovato le nuvole!

E anche un po’ di pioggia, ma d’altra parte è il Queensland, signori, the Sunshine State.

Da non perdersi durante questa tappa nei Seventies un chai latte in qualche locale sulla spiaggia di Wategos (il principio è lo stesso del chai tea indiano, la miscela di spezie poi varia a seconda della fantasia di chi lo prepara, bisogna essere onesti) e il The Balcony, praticamente un’istituzione.

The Balcony ti accoglie con una scala che sa di polvere, con quella moquette scura e la carta da parati stinta che si infilano su per un corridoio buio; è un locale in stile orientale che con la sua allure decadente potrebbe propinare le peggio cose senza timore di sentir  lamentele perché alla fine qui ad essere in vendita è la magia, in un certo senso.
E se c’è la magia, fuck the rest.

Sorry, ma qui ci stava bene.