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East Coast terza tappa – Coffs Harbour

Coffs Harbour ha inaugurato i miei giorni di pioggia australiani.

Siamo a nord di Port Macquarie, quasi al confine tra New South Wales e Queensland, altrimenti noto come “The sunshine state”: ci avessi fatto un giorno senza acqua, me la sono portata fino a Brisbane.

Ma non divaghiamo.

Coffs Harbour è un altro tranquillo paesino costiero dove la vita si srotola attorno ad un grande mall (attenzione: i negozi chiudono molto presto, bisogna pensare per tempo a qualsiasi tipo di rifornimento!) e all’immancabile Coles, il mio supermercato di fiducia per i muffin, se non si fosse ancora capito.

Che sono andata a scovare a Coffs Harbour?

Cold Rock (http://www.coldrock.com.au/ rel=”nofollow” ): è risaputo che per certe chicche ho un fiuto incredibile.

Ma vi chiederete di che si tratta: si tratta di un’esperienza che potrei definire mistica senza timore di fare torto ad apparizioni di carattere più ortodosso, in tutti i sensi.
Cold Rock oltre che una visione è una gelateria, che con mia grande gioia ho scoperto essere una catena (in genere le catene non mi prendono più di tanto, ma in questo caso mi ci sono aggrappata fino a Brisbane, come non farlo); la sua particolarità sta appunto nella pietra ghiacciata, come suggerisce il nome.

Funziona che uno sceglie i gusti che preferisce oltre che i vari extra da aggiungere, che mica si può mangiare un gelato così senza niente; quando dico extra dico cereali, frutta secca, ma anche Mars, Bounty, After Eight, insomma: ogni schifezza possibile.
Gelato ed extra vengono lavorati insieme con una spatola direttamente sul bancone: è questa la famigerata pietra congelata, talmente fredda che fuma; ipnotizzante, la guardi con gli occhi sgranati.
E con un po’ di bava alla bocca, bisogna ammetterlo.

Gelati a parte, la cosa che mi è piaciuta di più di questa cittadina è il Sunday Market, che si tiene tutte le domeniche mattina in un parco a ridosso dell’oceano (questa non era programmata, confesso: tutta fortuna!); a dire la verità non è un vero e proprio mercato, ha più della sagra di paese, tra bancarelle, giostre, zucchero filato e bambini che schiamazzano ovunque inseguiti da genitori trafelati.
Una bella botta di vita!

Coffs Harbour vuole anche dire Big Banana (http://www.bigbanana.com/ rel=”nofollow” ).


Ora, io adoro gli australiani e veramente mi sono rimasti nel cuore, ma in certi frangenti davvero faccio fatica a capirli con la loro maledetta ossessione per il big: il continente intero è disseminato di queste nefandezze.
Big Prawn, Big Pineapple e chi più ne ha più ne metta, non c’è limite al peggio.
Nella fattispecie, il Big Banana è una sorta di parco divertimenti costruito nei pressi di una piantagione di banane, per l’appunto, dove questo frutto la fa da padrone infestando i gadget delle più infime categorie. Non me la sono sentita di calarmi troppo nell’entusiasmo del local, non me ne vogliate: sono pronta a tutto, ma qui si esagera.
D’altra parte come non vederlo? Si trattava pur sempre di rendersi parte dell’orgoglio di una nazione.

Poi però via verso nord.

Circa 10km sopra, qualcosa di più interessante attende il viaggiatore che ha voglia di fare una piccola deviazione: il Legend Surf Museum, ideato e gestito da una vecchia gloria del surf australiano, Scott Dillon, che è il vero valore aggiunto di questo posto.


Ammetto che un semplice tour tra vecchie tavole polverose e foto un po’ sbiadite mi avrebbe annoiata abbastanza in fretta (in genere i surfisti mi piace vederli all’opera), ma con questo vecchietto adrenalinico che tuttora cavalca l’onda è stata tutta un’altra cosa: sono rimasta affascinata dai suoi racconti che avevano lo stesso sapore del dente di squalo che aveva legato al collo, lo stesso che per mare gli ha lasciato una bella cicatrice.

Chissà poi se è tutto vero.
Ma alla fine, chi se ne importa.

East Coast seconda tappa – Port Macquarie

Per la seconda tappa del mio viaggio sulla East Coast australiana ci spostiamo qualche chilometro a nord di Nelson Bay, a Port Macquarie.

Port Macquarie nasce negli anni venti come colonia penale dove dirottare quei detenuti che a Sydney se la spassavano fin troppo bene; il retaggio di questi trascorsi si respira ancora nell’architettura cittadina, anche se ormai il paese ha più del buen retiro per pensionati in cerca di tranquillità.

Per il pernotto la scelta ricade sul Port Macquarie YHA Hostel, ovviamente.

Dico ovviamente perché così ne approfitto per segnalare questa rete di ostelli che secondo me è da tenere presente: la YHA.
Una garanzia, oserei dire.
La consiglio a chiunque avesse intenzione di farsi l’Australia da backpacker: a pescare qui dentro si cade sempre in piedi, l’ho sperimentato di persona; la YHA è un po’ come la DOCG sui vini.

Port Macquarie può essere nostalgica a camminarci dentro col suo sentiero storico che mostra pezzi di un passato ormai lontano non tanto negli anni quanto negli usi, ma vale sicuramente qualche ora a zonzo per le strade, senza stare a fare troppi programmi e concedendosi il lusso della scoperta inattesa.

Spingendosi verso l’oceano si incappa in un breakwall come ce ne sono pochi, con i
massi che diventano murales del viaggiatore che vuole lasciare traccia del suo passaggio; continuando lungo la costa si arriva al faro, dove ci si può sedere in compagnia di bellissimi tramonti sbirciando i surfisti che proprio non ne vogliono sapere di uscire dall’acqua.

Non ho ancora capito il perché, ma adoro i fari: da sempre mi trasmettono come un senso di saggezza e solennità.
Mi rendo conto che saggezza detto di un faro magari fa strano, ma vi invito a fermarvi un secondo per farci un pensierino: scommetto che non mi darete della pazza (non completamente, almeno).

In ogni caso, e chi mi conosce lo sa bene, in tutta onestà il faro a cui rimango legata in modo particolare si trova giusto qualche chilometro a nord da qui, ma avremo modo di scoprirlo prossimamente (a questo punto dovrei mettere un “stay tuned!” che fa tanto Madison Avenue, ma già lo faccio sui social e non vorrei esagerare).

Port Macquarie vuole anche dire Koala Hospital.

La struttura è gestita esclusivamente da volontari che si occupano di curare quei koala che per un motivo o per l’altro non sono in grado di badare a se stessi.
Perché malati, magari sono anziani e hanno la cataratta, tanto per dirne una. Succede anche a loro.
O perché feriti, investiti ad esempio da qualche macchina lungo la strada: da queste parti capita spessissimo, e se il koala ha anche la cataratta allora è un disastro.

E’ un posto davvero unico, soprattutto per un occidentale che questi animali li vede giusto alla televisione: merita una visita, l’esperienza è di quelle che rimangono appiccicate addosso per un po’.

Una buona forchetta come me non poteva che concludere parlando di cibo, d’altra parte l’avevo detto.

Non posso non nominare il ristorante Bliss, sulla via centrale andando verso l’oceano, con la sua cucina australo-indonesiana: mix di tutto rispetto, signori.
Anche qui un segno del destino?
Non saprei, quel che è certo è che ho mangiato un canguro con riso e bambù che ancora adesso mi ricordo!

Mi scusino gli animalisti e i vegetariani, ma quando si tratta di carne io assaggio tutto: dalla gazzella keniota, buona in umido, al kebab di coccodrillo, un po’ stopposo in effetti, ma forse è perché non sono troppo fan della carne bianca.
Può essere?