Per la seconda tappa del mio viaggio sulla East Coast australiana ci spostiamo qualche chilometro a nord di Nelson Bay, a Port Macquarie.
Port Macquarie nasce negli anni venti come colonia penale dove dirottare quei detenuti che a Sydney se la spassavano fin troppo bene; il retaggio di questi trascorsi si respira ancora nell’architettura cittadina, anche se ormai il paese ha più del buen retiro per pensionati in cerca di tranquillità.
Per il pernotto la scelta ricade sul Port Macquarie YHA Hostel, ovviamente.
Dico ovviamente perché così ne approfitto per segnalare questa rete di ostelli che secondo me è da tenere presente: la YHA.
Una garanzia, oserei dire.
La consiglio a chiunque avesse intenzione di farsi l’Australia da backpacker: a pescare qui dentro si cade sempre in piedi, l’ho sperimentato di persona; la YHA è un po’ come la DOCG sui vini.
Port Macquarie può essere nostalgica a camminarci dentro col suo sentiero storico che mostra pezzi di un passato ormai lontano non tanto negli anni quanto negli usi, ma vale sicuramente qualche ora a zonzo per le strade, senza stare a fare troppi programmi e concedendosi il lusso della scoperta inattesa.
Spingendosi verso l’oceano si incappa in un breakwall come ce ne sono pochi, con i
massi che diventano murales del viaggiatore che vuole lasciare traccia del suo passaggio; continuando lungo la costa si arriva al faro, dove ci si può sedere in compagnia di bellissimi tramonti sbirciando i surfisti che proprio non ne vogliono sapere di uscire dall’acqua.
Non ho ancora capito il perché, ma adoro i fari: da sempre mi trasmettono come un senso di saggezza e solennità.
Mi rendo conto che saggezza detto di un faro magari fa strano, ma vi invito a fermarvi un secondo per farci un pensierino: scommetto che non mi darete della pazza (non completamente, almeno).
In ogni caso, e chi mi conosce lo sa bene, in tutta onestà il faro a cui rimango legata in modo particolare si trova giusto qualche chilometro a nord da qui, ma avremo modo di scoprirlo prossimamente (a questo punto dovrei mettere un “stay tuned!” che fa tanto Madison Avenue, ma già lo faccio sui social e non vorrei esagerare).
Port Macquarie vuole anche dire Koala Hospital.
La struttura è gestita esclusivamente da volontari che si occupano di curare quei koala che per un motivo o per l’altro non sono in grado di badare a se stessi.
Perché malati, magari sono anziani e hanno la cataratta, tanto per dirne una. Succede anche a loro.
O perché feriti, investiti ad esempio da qualche macchina lungo la strada: da queste parti capita spessissimo, e se il koala ha anche la cataratta allora è un disastro.
E’ un posto davvero unico, soprattutto per un occidentale che questi animali li vede giusto alla televisione: merita una visita, l’esperienza è di quelle che rimangono appiccicate addosso per un po’.
Una buona forchetta come me non poteva che concludere parlando di cibo, d’altra parte l’avevo detto.
Non posso non nominare il ristorante Bliss, sulla via centrale andando verso l’oceano, con la sua cucina australo-indonesiana: mix di tutto rispetto, signori.
Anche qui un segno del destino?
Non saprei, quel che è certo è che ho mangiato un canguro con riso e bambù che ancora adesso mi ricordo!
Mi scusino gli animalisti e i vegetariani, ma quando si tratta di carne io assaggio tutto: dalla gazzella keniota, buona in umido, al kebab di coccodrillo, un po’ stopposo in effetti, ma forse è perché non sono troppo fan della carne bianca.
Può essere?