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Cooking Bali _ Something to drink

Ultima puntata della serie “Bali in cucina”, o “al bar” in questo caso, e poi torno all’isola nel senso più ortodosso del termine, perché ho ancora qualcosina da raccontare dello scorso mese.

Ma ora abbiamo altro cui pensare.

Bali da bere…da dove iniziamo?

Dal kopi luwak, direi!
Avevo già accennato velocemente a questo caffè, noto come “caffè cacca di gatto”.
Già, “cacca di gatto”: e l’ho bevuto. Ammetto di averlo fatto prima di conoscerne la storia, altrimenti chissà.
Come funziona, funziona che questo luwak, che assomiglia ad un gatto, appunto, è golosissimo delle bacche di caffè, il suo problema è che non le digerisce.


Le bacche rivedono quindi la luce esattamente com’erano prima del loro percorso avventura (caro luwak, la golosità ha sempre un prezzo!), fatta eccezione per la loro parte esterna, intaccata dagli enzimi del roditore, e quindi modificata: nessuno passa indenne da un’esperienza del genere, suppongo.
Da qui il tipico aroma che ha reso questo caffè unico nel mondo, anche nel prezzo: intorno ai 500€ al chilo, ma fuori dall’Indonesia una tazzina può costare anche 50€!
Onestamente non è male, ma a mio modo di vedere, tutto questo folclore non giustifica una follia del genere.
 

Aggiungiamo una nota alcolica parlando di arak, o arrack.
Per quello che ho avuto modo di assaggiare, l’arak mi è sembrato piuttosto simile al rhum; viene prodotto a partire dalla palma di cocco, dalla linfa dei fiori per essere precisi, che fermentando produce in prima battuta il vino di palma (assaggiato: di buono aveva solo la compagnia delle persone con cui l’ho bevuto), che distillato si trasforma in questo liquore, appunto.


Onestamente da solo non mi ha fatto impazzire, anche se a Bali generalmente si beve così (di quelle tazze!), ma mixato in qualche cocktail come l’arak mojito o l’arak colada ci può stare!
 

Continuiamo con l’alcool e parliamo di Bintang, la birra nazionale.
Ecco, qui devo dire che ho apprezzato, io che in Italia di birra non ne bevo!
Se ne trova ovunque, perfino nella versione “Zero”, analcolica, anche se questa non è così facile da scovare: solo per gli scaffali più forniti.
Probabilmente chi di birra se ne intende, se la assaggia arriccia un po’ il naso: è molto leggera e abbastanza dolce, insomma, è un po’ una finta, e forse è anche per quello che l’ho bevuta!
 

Come dimenticare poi la Red Bull thailandese (dolcissima, anche per me che di Red Bull sono fanatica), i the arricchiti di ogni genere di spezia, o gli infusi, specialmente allo zenzero: acqua bollente e un po’ di radice, nient’altro, perfetto nella sua semplicità.
 

E gli smoothies di Legian? Ho trovato un localino di 4 metri per 4 che ne faceva di spettacolari! Il mio preferito? Banana, latte di cocco, miele e gelato: l’ideale per la dieta, ma è bastata una corsa in spiaggia la mattina per mettere a tacere le proteste neanche troppo convinte della mia coscienza.

Gili: forse qui si può dire di avere delle isole negli occhi.

Il viaggio verso le isole Gili inizia nel traffico incanalato in direzione Padang Bai; carovane di camion trasportano roccia e sabbia vulcanica verso la parte occidentale dell’isola: sono i materiali dell’edilizia balinese, di qui il colore plumbeo della maggior parte di edifici e templi.

Credevo che la traversata dell’andata fosse per stomaci forti, o alla peggio vuoti, fino a quando non ho avuto a che fare col viaggio di ritorno: 80 interminabili minuti per mare, durante ai quali ho sentito colare tra le tempie una sensazione molto vicina al panico, e durante i quali ho più volte visto l’orizzonte di traverso (voglio precisare che non è una metafora: la bagnarola si divertiva a travestirsi da offshore. In queste situazioni, o si ritrova la fede, o la si affossa definitivamente sotto una montagna di improperi).

Ma lasciamoci alle spalle la parentesi di terrore, perchè le Gili sono state ben altro, e i 10 anni di vita che ho lasciato sulla strada per raggiungerle sono stati ben spesi.

Quando dici Gili, ti guardano, ridacchiano, e ti chiedono “Magic mushrooms?”
Anche no, prenderei strade diverse, se per voi va bene!

Sto parlando di tre isolette al largo di Lombok, probabilmente dimenticate anche dal dio dei viaggiatori (credits ai Modena per la citazione colta); per dormire mi sono scelta la più “grande” Trawangan, altrimenti detta party island, dove la vita ha la cadenza del reggae che tanto adoro (Bob, Peter, Jimmy, c’erano tutti!), e certamente più adatta a chi viaggia in solitaria e non vuole tagliarsi completamente fuori dall’universo: lasciamo le sorelle minori a coppie e famiglie.

Mai come in questa situazione ho avuto la conferma che è la persona che lo vive a fare di un posto quello che realmente è, non l’etichetta che gli viene in genere affibbiata; non nego che tra tropical moon, mojito e horizontal lounge mi sono data il mio bel da fare, ma i momenti in cui Gili T mi ha rivelato tutto il suo fascino erano le mattine, quando, strani personaggi a parte, i più dormivano, e l’unica compagnia erano lo schiocco della risacca e il tintinnio dei campanelli dei cidomo (sono selvatica, alla fine, che ci posso fare).

I cidomo sono dei carretti di legno trainati da un cavallo, che ti sfilano per strada ad ogni ora, unici mezzi di trasporto su queste isole, insieme alle biciclette: niente motori (se ci andate durante il Ramadan, ci pensa il muezzin a fare casino di notte).

Un posto come questo va vissuto almeno una volta nella vita: qui davvero ti fai un’idea di come il mondo possa nascondere delle perle rare nei suoi giochi di prestigio, qui vedi che nonostante tutto quello che hai già visto, ti mancherà sempre qualcosa da scoprire, che magari non sapevi nemmeno esistesse.

Che isole.
Anche loro, terre d’incontri.

Paolo, qui in vacanza come me, ha lasciato Genova a cavallo dei suoi 25 anni, e fa il pizzaiolo a Sydney per raccogliere i soldi per il visto studentesco: in Australia costa una follia, ma lui lì ci vuole stare per sempre, e l’unico modo è passare il famigerato esame di lingua. Intanto divide l’appartamento in periferia con altri sette sciammanati come lui, e dice che è un gran casino.
E che ci sta da dio.

Angelo, che alle Gili si è trasferito definitivamente anni fa, per aprire quel villaggio dove ho dormito tre notti.
Anche lui di Genova (pare quasi una colonia), ha piazzato sulla sua spiaggia la bandiera della Samp, e mi ha rinfacciato lo scippo di Pazzini; è un vulcano, non ci sono altre parole per definirlo.

Con Angelo ci rivedremo a Legian, nella Bali dell’ovest, quella più turistica e più busy, come dicono qui: mi sono aggregata a lui e a suo figlio per un paio di giorni tra shopping, mare e qualche cosa da vedere; per convincermi (non che ci abbia messo molto) mi ha promesso la miglior cena balinese della mia vacanza: potevo resistere?

Vedremo se millanta, o se sarà in grado di competere con quelle delle prime settimane: la lotta è dura, ma per la sfida c’è sempre posto (nello stomaco anche, purtroppo).