Nei pochi giorni passati in Cambogia mi sono imbattuta in un’altra caratteristica comune a tanti, oltre al famoso sorriso.
Oggi la parola che racconta è FAME.
Non sto parlando della fame urlata dallo stomaco, no, i cambogiani si cucinano a qualsiasi ora del giorno e la fame quella vera l’hanno provata quand’erano costretti a mangiare pure le foglie, se proprio volevano mettere sotto i denti qualcosa.

Forse è anche per questo che cucinano con tante di quelle erbe spontanee che noi in genere snobbiamo e che invece regalano ai piatti un sapore che si lascia ricordare: che crescano a bordo della strada o sulla roccia di un tempio poco cambia, sicuro finiscono in un piatto e garantisco che male non ci stanno.
La fame di cui parlo qui è fame di un qualcosa che non ci si caccia giù per la gola.
Per forza di cose i miei sono stati dialoghi con gente fortunata, per il semplice (semplice? E’ da pensare) fatto che sa parlare inglese, passe-partout per una vita diversa, quella vita che si vive in un posto dove al treno per un futuro nuovo qualche stazione l’hanno costruita.
Magari un po’ diroccata, ma fa niente: ogni tanto il treno si ferma e non conta altro.

Il cambogiano che ho conosciuto io ha fame di questo futuro, e ne fa di ogni per conquistarsi un buco in uno degli scompartimenti.
Impressiona l’entusiasmo che c’è per tutte quelle cose che noi diamo per scontate perché altri hanno già combattuto queste battaglie per noi.
Impressiona avere a che fare con generazioni in prima linea perché noi di linea siamo la quarta, forse anche la quinta, e davvero non ci siamo abituati a questo grattare centimetro per centimetro, come si grattano fuori dalla terra le erbe per l’amok, noi abbiamo tutto sullo scaffale.

E’ un bel bagno di essenzialità, passatemi sto termine che non mi piace troppo, è un bel modo per fare pulizia di tutti quegli orpelli di cui ci siamo caricati strada facendo perché non avevamo granché di meglio da fare.
E’ forse un po’ questa la famosa frontiera da passare a piedi: quella che confina col paese di chi ce l’ha fatta perché se l’è guadagnata, quel paese che per molti è ancora un sogno, ma che con la determinazione che ho visto in giro non ci metterà troppo a diventare casa.

Quindi ben venga la fame, perché quella che ho incontrato è gente che ognuno a modo suo lascerà un segno, e non credo si possa desiderare di meglio nella vita, ovunque essa venga vissuta.
Di solito i maniaci dicono “vorrei essere le tue mutandine” oppure quelli più dolci direbbero “vorrei essere il tuo rossetto” etc… Io da dolce maniaco dico “vorrei essere la tua macchina fotografica” e concludo con:
FAME
I wanna live forever…
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Ahahah!! Tu sei il numero 1!
Ok, sei ufficialmente ingaggiato come mia Canon, stai pronto per il prossimo viaggio 😉
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Bellissimo post! 🙂 Anche noi siamo rimasti sbalorditi dalla fame del popolo cambogiano… e soprattutto dai sorrisi, semprepresenti 🙂
Un abbraccio
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Ti ringrazio!
Credo che quelli siano gli aspetti dei cambogiani che più entrano nel cuore, le caratteristiche che colpiscono e che ci si riporta a casa.
Sono un bell’esempio, a me hanno dato tanto 🙂
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Hai un occhio sempre attento ed empatico quando viaggi e questo post ne è la dimostrazione. Come sempre una lettura deliziosa.
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Ti ringrazio Elena, detto da una viaggiatrice come te è ancora più prezioso 🙂
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