Ricordo Kingscote come una cittadina brulicante di vita, di quelle che i negozi chiudono alle 17.30 a tirare tardi e che la Lonely Planet chiama “sonnolenta”: come darle torto.
Non ci si fissi sulle 17.30, che a volte capita di incappare in cartelli come questi ben prima:
Eh, succede, d’altra parte ci sono delle priorità nella vita.
Ma si sopravvive anche a questo.
A Kingscote ci si rilassa e ci si trascina tra viuzze silenziose e talmente vuote che ti chiedi se alla fine qualcuno ci abita davvero, che il dubbio viene.
Fa un po’ strano perché a tratti sembra quasi un paese fantasma, ma forse parte del suo fascino sta proprio in questo.
La giornata di Kingscote ruota attorno a due grandi eventi costruiti attorno al curioso che viene a mettere becco (e in questo caso non esiste espressione più azzeccata) da queste parti; di uno, il penguin tour, ero a conoscenza, tant’è che ci sono venuta apposta, nell’altro, il pelican feeding, ci sono incappata mio malgrado e già che c’ero perché non rimanerci.
Come quel povero pellicano.
Ma andiamo con ordine.
Il pelican feeding consiste in un personaggio che ogni giorno alle 17 arriva sul molo principale di Kingscote con la sua cassetta di pesce; i pellicani ormai lo sanno e si presentano puntuali all’appuntamento con la loro cena offerta, per la gioia del turista che rimane a bocca aperta guardandoli litigarsi fino all’ultima squama.
Ammetto di essere rimasta impressionata: sono tantissimi (i pellicani, ma anche i turisti appollaiati sugli scogli, in effetti) e hanno una voracità pazzesca.
Darwin non diceva fesserie a quanto pare.
Il pelican feeding mi è rimasto impresso per una scena tragica, che non so quanti hanno avuto modo di notare, fatto questo che senza dubbio ha aumentato il lirismo dell’episodio, consumatosi nell’indifferenza generale: un povero pellicano con un pesce che gli va di traverso (e non ci vuole molto a capirlo: i pellicani hanno il collo stretto e se qualcosa gli si pianta storto si vede anche da fuori; presente la classica scena da cartone animato? Ecco, uguale) e che si allontana dal groviglio di becchi e ali con grande annaspare.
L’ho seguito con lo sguardo fino a quando si è inabissato ed è sparito del tutto senza più riemergere. Giuro che la scena me la ricordo ancora bene, deve avermi impressionata: sarà stato l’occhio del povero animale, gioioso come quello di un salmone sul banco del pesce?
Può essere. In ogni caso l’ingordigia è una brutta cosa, converrà tenerlo a mente prima di fare la stessa fine.
Il penguin tour invece era previsto.
Avevo anticipato che è una cosa che va prenotata: le spiagge dei pinguini sono chiuse al pubblico, vi si accede solo con la guida e solo dopo il tramonto, questo perché di giorno di pinguini non ce ne sono, non è il Polo Sud.
Accaparro Roger, guida in seconda, e me lo tengo accanto per tutto il tempo: ottima mossa perché non si risparmia e mi regala una serie di chicche su questi animali che stanno tutto il giorno in mare a pescare e rientrano la sera a portare il cibo per i piccoli (ecco perché di giorno non se ne vedono).
Ci avviamo sulla spiaggia in silenzio, cercando di non fare rumore, il cammino illuminato da torce con un fascio di luce rossa, per non disturbare i rientri dopo una lunga giornata di lavoro.
Roger mi spiega di fare molta attenzione a dove vado e soprattutto di badare bene a non tagliare mai la strada ad un pinguino sulla via del ritorno.
Perché? Chiedo un po’ basita, visto il tono solenne della raccomandazione.
Perché i pinguini hanno un senso dell’orientamento che può essere facilmente compromesso: se gli tagli la strada rischiano di perdersi e di non ritrovarla più, abbandonando i piccoli a se stessi, in questo caso; ecco perché non c’è la possibilità di vedere questi animali senza guida.
Generalmente io sono per il fai da te, ma questo episodio ricorda che è sempre bene affrontare certe esperienze con le giuste conoscenze, che l’improvvisazione non sempre basta.
E la prossima settimana? Strane rocce e…spiagge!
Dopotutto, è un’isola.