Il tramonto, dicevamo.
Dalle parti del Kings Canyon (Watarrka è il suo vero nome, il nome aborigeno) ci sono arrivata nel tardo pomeriggio, quando il sole si preparava a levare le tende: vuoi non andare a goderti la vista?
Per lasciare la valigia c’è sempre tempo, certe sfumature di rosso invece non sanno aspettare.
Io nemmeno.
Quindi mollata la macchina ho infilato la passerella di legno e sono andata a godermi lo spettacolo.
Poi via verso la cena!
Ho evitato tutte le proposte suggestive dei depliant vari e mi sono buttata sulla griglieria del Kings Canyon resort: sono uscita che puzzavo di carne peggio di quella che avevo nel piatto e con le orecchie piene di un frastuono che somigliava a musica country mista a vociare alticcio, ma direi che ne è valsa la pena!
L’esperienza è di quelle da ricordare, il kebab di coccodrillo e le salsicce di emù pure, anche se ammetto che il mio preferito rimane il canguro (scusate la brutalità, ma ho una certa passione per la carne).
L’incontro col canyon in persona è per la mattina successiva, in grande stile: la scelta ricade sul Kings Canyon rim walk, percorso circolare di quattro ore scarse che ti porta fino alla sommità del dirupo; qualche tentennamento l’ho avuto, visto che il ragazzo del desk al resort si è più volte raccomandato di fare attenzione al vento molto forte, che di appigli non ce ne sono e sono un po’ fatti tuoi.
Bell’incoraggiamento, eh? Vabbè, facciamo finta di non avere sentito.
Ad ignorare i terrorismi gratuiti si fa sempre bene, mi fossi lasciata intimorire da certi scenari apocalittici, mi sarei persa uno spettacolo!
Cammini su, fino alla cima e ti aspetta una vista meravigliosa, che ti senti un microbo in un mondo che mai come in momenti del genere appare grande; fai qualche passo a Lilliput (sì!), in quota, vedi queste strane rocce che punteggiano tutto un tratto del sentiero e scopri che la creatività della natura non ha limiti.
Scendi nel Giardino dell’Eden (no, non sei morto di caldo e fatica, scendi davvero!) e nel mezzo del deserto rosso scopri che ci sono pozze naturali con una vegetazione da fare concorrenza all’Amazzonia.
E la gente ci fa il bagno.
Poi ritorni su e affronti l’ultimo tratto del percorso, quello che ti riporta alla base pieno di mosche, che pare essere tipico da ste parti (non a caso vendono di quei cappelli con retina che mammamia), ma che alla fine ti è andata bene, che visto che ha piovuto non ce ne sono poi tante (da notare che tutto è relativo: per “non ce ne sono tante” si intende che ti riempi completamente, che ti si appoggiano addosso e chi le leva, ma almeno riesci a non mangiarle e son fortune).
Le scarpe sono ormai piene di terra rossa, verrà via? Poco male, tanto si sono aperti anche un paio di buchi: ti chiedi per quanto reggeranno ancora mentre entri in macchina, che Uluru attende.
E anche una sorpresa attende, che ogni tanto una botta di fortuna se la pigliano tutti volentieri!
Ecco io a questo post scriverei un commento lungo una vita… perché mi ha regalato uno dei ricordi più belli e ancora vivi come fosse ieri del mio viaggio in Australia.
Non potendo commentare una vita di dico che io la carne di canguro me la sogno ancora (l’ho mangiata in un paio di posti in Italia ma niente a che vedere) e anche noi abbiamo cenato lì! però solo insalata perchè siamo arrivati tardissimo e la cucina era chiusa… CIAO!!!
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Ti ringrazio 🙂
Quanto ti capisco sulla carne di canguro..anche io l’ho mangiata di nuovo in Italia, ma è verissimo, è tutta un’altra cosa! Bisognerà tornare 🙂
Quella griglieria è spettacolare, più che altro per i personaggi! Le risate che mi sono fatta!
L’inconveniente è che quando esci diventi una potenziale preda per i dingo, con la scia che ti porti appresso!!
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