Sihanoukville-Bangkok : cronaca in differita di un altro viaggio della speranza

Ci sono dei pezzi di strada che possono mettere a dura prova i nervi, ma se la butti in caciara ci ridi sopra per una vita intera.

Non molto tempo fa ho fatto un viaggio da Milano a Marsiglia (Altertrip, parte 1 e parte 2) nel quale credevo di avere dato il meglio in quanto a sfiga e come mi sbagliavo: ancora mi mancava l’avventura tra Sihanoukville e Bangkok, che quando ho chiesto quanto ci voleva all’incirca la risposta è stata “Tra le 11 e le 18 ore”.

Eh, quando chiedi all’incirca ti prendono in parola.

Ci sono stati momenti quel giorno, quando sembrava che tutto quello che poteva andare storto alla fine storto ci andava per davvero, che sull’orlo del baratro mi sono scoperta a pensare sempre ad un’unica cosa, con grande raccapriccio: NON HO IL WIFI.
Che nelle situazioni di emergenza dò il meglio e le boiate pare quasi si scrivano da sole.

Quella che trovate qui di seguito è quindi una tweetcronaca (il copyright è di Andrea) in differita: non avevo il wifi ma la fotocamera sì e vuoi non documentare l’epopea.

Il percorso

La partenza è da Otres Beach, la spiaggia più “rurale” di Sihanoukville, che per raggiungere l’oceano si attraversa una lingua di terra rossa presidiata da galline e bovini e non capita proprio ovunque.

Il tuk tuk ci porta in centro, dove attendiamo con qualche faccia un po’ assonnata il pullman di linea, che non tarda troppo ad arrivare: il tipico buon segno che sul lungo poi ti frega.

Il mezzo si presenta in tutto il suo splendore figlio degli anni Cinquanta, con le tendine dello stesso verde che ha la speranza quando è artificiale come la menta di un ghiacciolo; i nostri zaini vengono scaraventati nel bagagliaio con tutto l’amore che si riserva ad un sacco per la spazzatura.

Inside the bus (the 1st one)

Prendiamo posto al cospetto di un vortice d’aria condizionata che ci gela fin sotto l’abbronzatura: è in casi come questi che quell’affare che ti sta proprio sopra la testa porca miseria è incastrato, sempre.

Vivaddio riusciamo a chiuderlo anche se in modo poco ortodosso, giusto in tempo per scoprire l’inutilità di tanta fatica, che l’aria tanto esce lo stesso, infame.

Ma è nell’emergenza che l’intelletto ti mette di fronte a risorse che neanche pensavi di avere, Darwin non era ciarlatano, è così che pensiamo di utilizzare l’ormai famosa tendina verde come barriera, ripiegandola all’insù, nello spazio dove si infilano i bagagli.
Piazziamo lo zaino e la blocchiamo con gran soddisfazione.
Neanche McGyver l’avrebbe pensata, diciamolo.

Si parte.

The road

Le strade presentano qualche difetto di struttura e la cinese del sedile accanto inizia a vomitare come credo di aver visto fare solo ne L’esorcista, ma questo non le impedisce di ingozzarsi di porcherie che neanche un SevenEleven ha tanta scelta.
Ah, ovviamente dopo aver riempito il sacchettino per il vomito di turno: prima il dovere (da quelle parti Mao non l’hanno dimenticato mai).

L’esperienza è di quelle che mi consegna una grande scoperta, insegnamento per la vita: il vomito dei cinesi non puzza.

Avanti così, è tutta cultura.

La strada che porta a Cham Yeam è costellata di quelli che più che buche paiono crateri di pianeti lontani; il pullman rimbalza su ammortizzatori che hanno dichiarato la resa il giorno in cui è finito Happy Days e noi ce ne accorgiamo, eccome.

Cambodia, autogrill

La prima sosta è in un “autogrill”, sono le 10 del mattino, l’autista deve pranzare: le nostre ossa ringraziano senza formalizzarsi sull’orario dei pasti.
Noi ringraziamo un po’ meno quando una volta ripartiti veniamo derubati della nostra invenzione: non si può tenere la tendina così, vietato.

Proviamo a protestare, si rischia l’ibernazione, magari vale come eccezione.
Magari no.

La punizione per tanto ardire è l’asportazione dell’arma del delitto per mano di uno steward (si chiama così su un pullman scalcagnato? Boh.) fin troppo solerte: brutta roba l’invidia, bastava smontare l’impalcatura, no?

Arriviamo a Cham Yeam dentro le nostre felpe.

La dogana si prende un’ora buona di una giornata da ricordare, ora che per la maggior parte se ne va nell’attesa del nuovo mezzo, mica per sbrigare le formalità tipiche dell’attraversamento da frontiera.

Ci rassegniamo ad un’attesa condita dal sudore delle prime ore del pomeriggio e dalle prese in giro del thailandese di turno, che per l’occasione sfoggia il sorriso numero 16, quello del ti prendo per il culo: evidentemente nutre una certa simpatia e non ci vuole lasciare andare via.

Che dire.

All’orizzonte si iniziano a dipingere gli scenari più apocalittici, che si sa, la letteratura sulle fregature da frontiera è varia e fantasiosa, soprattutto se la frontiera sta dall’altra parte del mondo, non importa quale.

Incapaci di apprezzare l’affetto del nostro nuovo amico, facciamo le nostre rimostranze, ed è così che veniamo illusi sull’arrivo di un “big bus”: è un attimo ad abbandonare i cari ricordi retrò al gusto di menta artificiale; è tempo di guardare al futuro, che la vita lo impone.

L’amara realtà è che ad essere infedeli si viene puniti: altro che big bus, quello che arriva è un minivan.
Addio sogni di grandezza.

Ci troviamo quindi a lottare per un posto in quel dannato aggeggio, che in certi casi vale tutto e l’unico pensiero è portare a casa la carcassa: basta soggiornare in questa terra di nessuno.

No man's land

Finisce così che due italiani, due francesi, un tedesco, tre russi, una belga non da bere e un apolide (eh, era selvatico, non ha detto mezza parola, chi l’ha mai capito da dove venisse) si ritrovano pigiati su dei sedili di una pelle finta come l’abbronzatura di una starlette alla ricerca del suo posto al sole.

A tenere insieme il gruppo variegato è la voglia di arrivare, uguale per tutti.

E’ che tante volte ti chiedi se la voglia può bastare.

Per il momento quelle che bastano sono le parole, che troppe tutte insieme si chiama invadenza.
Tra qualche giorno ne riparliamo, eh!

19 pensieri riguardo “Sihanoukville-Bangkok : cronaca in differita di un altro viaggio della speranza”

  1. ciao cabiria, raggiungo il tuo blog tramite andrea. vorrei un’informazione. Sarò in vacanza nelle isole davanti trat, thailandia (koh chang, koh kut) e vorrei da li passare in cambogia. Potresti dirmi dov’è la dogana più vicina e le formalità burocratiche? grazie Carlo

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    1. Ciao Carlo!
      Se arrivi da Trat, il punto più comodo per passare la frontiera è quello di Cham Yeam, e lo puoi raggiungere in autobus (praticamente fai la strada opposta a quella che ho fatto io).
      L’anno scorso ho pagato il visto (on arrival) 20$ e a parte questo non c’è nulla da fare, se non farsi prendere le impronte digitali di tutte le dita 🙂

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  2. Ti posso garantire che il mio viaggio di questo anno a Sulawesi è stato più che tribolato. Se t’interessano dettagli, fai un fischio.96 Km in 10 ore ti dice niente? E questo come primo approccio, i seguenti molto più movimentati ,che a volte penso di essermi inventata tutto….
    Ma sono pronta ad altre esperienze, tanto mi è piaciuto. Ognuno si diverte come può!

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      1. Cabiria, se conosci Alessandra Rusticali a lei ho inviato una specie di diario del viaggio che dovrebbe aver pubblicato nel suo sito Ci piace viaggiare, sennò ci dovrebbe essere nel sito di Michele Spiriticchio (viaggiare liberi). Poi io sono qua….

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  3. …voi a divertirvi e io ad aspettarvi… mica è giusto così… a Bangkok ci si preoccupava (in realtà sapevo che le vostre previsioni iniziali erano un’allucinazione post vacanza al mare – ben lontana dalla cruda realtà di chi conosce le strade della Cambogia!)

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  4. Lol, dovevi vedere questo stesso percorso piu’ di 10 anni fa’ nel periodo dei monsoni, i ponti non c’erano ancora, i traghetti in legno con ponte levatoio a mano, scendere e spingere se il mezzo s’impantanava, bei tempi…, le mie due settimane classiche nella giungla del borneo malese sono una passeggiata di salute al confronto… 😉

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      1. Mi interessa eccome (Sulawesi tra l’altro è in bucketlist, zona podio)!
        Sto pensando di specializzarmi nel viaggio tribolato, pare mi riesca facile 🙂

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