“Il mio rimpianto giapponese è sicuramente la mancata salita al monte Fuji”: scrivevo così nel post in cui elencavo gli highlights e le perplessità del mio viaggio in Giappone.
Come potrete leggere in questo post, in viaggio gli imprevisti, più o meno gravi, capitano spesso ed è per questo che consiglio sempre, come prima cosa, di stipulare una buona assicurazione. Di assicurazioni nel tempo ne ho provate diverse, e spesso la mia scelta è ricaduta su Allianz Global Assistance: potete cliccare questo link se volete farvi un’idea di quanto costa un’assicurazione viaggio. Se volete saperne di più potete visitare la pagina Facebook Allianz Global Assistance in Italia o seguire, su Instagram, l’hashtag #AllianzAssistIt.
Tornando al mio rimpianto, anche se alla fine preferisco vederlo come il motivo che mi farà tornare in Giappone, è successo che mi sono imbattuta in un tifone (pensavo di aver già dato a sufficienza con le Filippine e invece no). Roba forte insomma, così forte da bloccare tutti i treni.
Così forte da bloccare tutti i treni in Giappone. (Non so se rendo l’idea, in Giappone! Ok, vado avanti).
Insomma, mi ero prenotata il mio bel ryokan vista lago per due notti ai piedi del monte più alto del Paese (3776 metri), il più sacro, quello che Hokusai ha immortalato in ben 36 stampe, le famose “36 vedute del Monte Fuji”, e invece no. Addio sogni di gloria.
Siamo partiti da Kanazawa con uno shinkansen, direzione Tokyo. Per raggiungere Kawaguchi-co dalla capitale giapponese bisogna cambiare due linee: prima la Chuo Line per Otsuki (linea JR, compresa nel Japan Rail Pass di cui ho parlato qui) e poi da Otsuki il trenino della linea Fuji Kyuko per Kawaguchi-co, con biglietto da pagare a parte (non è una linea JR). Avevamo previsto di fare due notti perché la salita al Fuji richiede diverse ore, ci saremmo incamminati quindi all’alba del giorno successivo: lo dico casomai qualcuno stesse pensando di organizzare la stessa cosa, magari con esiti migliori.
Siamo rimasti bloccati per ore nel nulla suburbano della stazione di Higashi-Koganei perché nessun treno poteva proseguire con quelle condizioni meteo: delle grandi secchiate d’acqua si infrangevano sui finestrini e il vento tirava forte, piegando gli alberi in pose naturali come quelle di un selfie studiato a tavolino. Confesso che quando siamo passati sui ponti di un paio di canali in piena non ero tranquillissima.
Non ho avuto nulla da obiettare sul fine corsa anticipato. Tutti giù.
In queste situazioni, si sa, succedono sempre le cose migliori. Nel corso delle ore accampati in un corridoio di lamiera, abbiamo conosciuto diverse persone interessanti.
Una famiglia di Barcellona in vacanza, padre, madre e due figli, che mi ha dato la possibilità di rispolverare il mio spagnolo più audace che bello per far loro da interprete, visto che l’inglese lo parlava solo il ragazzino.
Un signore di Sydney appassionato di trekking e con un numero indefinito di viaggi in Giappone all’attivo: col suo giapponese ha fatto da interprete a me, traducendo i messaggi dell’altoparlante che a un certo punto aspettavamo con ansia, neanche fosse l’oracolo di Delfi.
Un vecchino giapponese che invece all’attivo aveva sei mesi in Nicaragua per volontariato: comunicava con noi e con la famigliola in uno spagnolo scintillante, altro che il mio. Giusto per chiudere il cerchio.
La nostra giornata è trascorsa così, scambiandoci scorci di vita in attesa di notizie nefaste, finché verso l’ora di cena ognuno ha preso la sua strada: noi abbiamo anticipato l’arrivo a Tokyo e siamo tornati indietro, la famiglia ha scelto di passare la notte in un hotel lì vicino in attesa di capire che sarebbe successo l’indomani, l’australiano si è accampato in stazione in attesa del primo treno utile e il vecchino ha aspettato invece il treno che lo avrebbe riportato a casa, prima o poi.
Quattro storie diverse di quattro pezzi di mondo, che per qualche ora hanno condiviso un tratto delle loro vite, oltre che improponibili dolciumi: il bello dei viaggi viene fuori in quelle che sembrano partire come giornate storte.
Prendetemi per pazza, ma sono felice che sia andata così: il Fuji-san sarà sempre lì per chi deciderà di salire sulla sua cima, certe esperienze invece sono uniche.
n.b. le immagini di Kawaguchi-co sono state scattate pochi giorni dopo, quando ci siamo andati in giornata da Tokyo (senza però salire sul Fuji!)
Io il passaggio di quello stesso tifone l’ho beccato a Furano, sull’isola di Hokkaido, però sono stato più fortunato.
Innanzi tutto ho fatto comunque in tempo a visitare i campi di lavanda (vincente è stata la scelta di scendere direttamente alla stazione della fattoria Tomita con tutto lo zaino sulle spalle senza passare prima in paese a posare il bagaglio, è stato faticoso ma almeno sono riuscito a farla questa visita) e poi l’ostello dove sono rimasto confinato per tutto il pomeriggio aveva delle piccole terme che mi hanno reso l’attesa più dolce.
In compenso io in due viaggi abbastanza lunghi in Giappone del Fuji non sono nemmeno mai riuscito a vedere la vetta, quindi il motivo per tornare ancora in terra nipponica è lo stesso vostro (insieme ad altri 10 milioni di motivi ^_^).
Un saluto.
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I campi di lavanda devono essere uno spettacolo! Ottima scelta 🙂
Quando dici che hai dieci milioni di motivi per tornare in Giappone ti capisco bene!
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